Dà del finocchio ad un manager del pastificio condannato il figlio di Giovanni Rana
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di Gian Luca Rana, legale rappresentante dell'impero.
Dà del finocchio ad un manager del pastificio condannato il figlio di Giovanni Rana. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di Gian Luca Rana, legale rappresentante dell’impero. A darne notizia i colleghi di VeronaSettegiorni.it
Dà del finocchio ad un manager del pastificio condannato il figlio di Giovanni Rana
Avrebbe dato del “finocchio” al suo manager, G.Z., per almeno 6 anni, dai 2001 al 2007, data del licenziamento di quest’ultimo. Per questa ragione lo scorso 20 dicembre, con sentenza pubblicata il 19 febbraio scorso, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di Gian Luca Rana , figlio del patron dell’azienda Giovanni, e confermato la condanna della Corte d’Appello di Venezia che con sentenza n. 466 pubblicata il 23.9.2014, aveva respinto l’appello proposto dal Pastificio Rana Spa. di Verona, confermando la sentenza di primo grado di condanna della società al risarcimento del danno non patrimoniale cagionato al dirigente dalla condotta vessatoria posta in essere dal legale rappresentante del pastificio, lo stesso Gian Luca.
Offese confermate dai testimoni
“La Corte territoriale – si legge nella sentenza – ha rilevato come la condotta datoriale, quanto alle ripetute offese sulla presunta omosessualità del dirigente, avesse trovato conferma nelle deposizioni dei testimoni, sia dei testi M. e B., dipendenti della società rispettivamente fino a novembre 2002 e settembre 2001, e sia dei testimoni (V., M. B.) addotti da parte datoriale, oltre che nell’interrogatorio libero del signor Z”.
Non erano “scherzi”
Non accolta, dunque, la tesi della difesa, secondo cui “fosse solo espressione di un clima scherzoso nell’ambiente di lavoro, avendo al contrario rilevato che la condotta medesima, in quanto ripetutamente posta in essere dal titolare della società nei confronti di un dipendente che, sebbene avente qualifica dirigenziale, era comunque in una condizione di inferiorità gerarchica (e, difatti, mai aveva reagito alle altrui offese), esprimesse un atteggiamento di grave mancanza di rispetto e quindi di lesione della personalità morale del lavoratore; secondo la sentenza impugnata, il lavoratore aveva allegato il danno subito (“stato di ansia e di stress … pregiudizio alla vita di relazione, pregiudizio alla dignità e professionalità, per la conoscenza nell’ambito aziendale”)”.
La difesa: non colto il clima cameratesco
Nel ricorso alla Corte di Cassazione la società di Rana aveva criticato la sentenza impugnata “per non aver colto il carattere scherzoso degli epiteti con cui il legale rappresentante era solito apostrofare il dipendente, in presenza degli altri colleghi e in un clima cameratesco, nonché per avere, in modo illogico e contraddittorio, letto la mancata reazione del signor Z. in dette circostanze come sopportazione di una offesa anziché come riflesso della irrilevanza e inoffensività della condotta datoriale, senza neanche debitamente considerare come il signor Z. fosse rimasto a lavorare alle dipendenze della società per circa dieci anni, arrivando a ricoprire una importante posizione dirigenziale”.